14 marzo 2007

La guerra è una tragica necessità, non una passerella per signorine

E il riferimento non è solo a Giuliana Sgrena, Giovanna Botteri, Lilli Gruber, Ennio Remondino o le due Simone.

La guerra non piace a nessuno, neppure a chi la ordina o a chi la combatte, ma quando è inevitabile bisogna lasciarla fare secondo le regole militari, sempre crudeli e inenarrabili.

Oggi, in aggiunta, chi combatte in divisa vedendo a rischio la propria vita e quella dei suoi commilitoni sa di avere spesso di fronte un nemico spietato che non usa le armi ma che si fa arma egli stesso.

In questo e in altri modi, il terrorismo si fa beffe di quelle convenzioni che a Ginevra gli Stati sottoscrissero e ai quali oggi non ci si può più appellare.

Ha imposto una guerra non più simmetrica (quella di quando le parti in conflitto si riconoscevano dalle diverse uniformi), costringendo i nostri soldati a combattere forze più insidiose e crudeli, dove pure i civili sono coinvolti per creare crescenti difficoltà anche morali proprio a chi li vorrebbe protetti lontani dal loro stesso fuoco.

E se, in tutto questo delicatissimo stato di aumentato pericolo, dove i belligeranti più esposti sono proprio coloro che rispettano le convenzioni internazionali, interferiscono anche delle figure come i giornalisti e i volontari, i rischi di favorire i fautori di un’offensiva mossa con un piede nella preistoria dei sacrifici umani e l’altro nella moderna informatizzazione diventano altissimi.

Dopo la guerra scatenata dai terroristi l’11 settembre, gli eserciti occidentali si sono trovati a fronteggiare un conflitto diverso, nuovo perché il nemico si nasconde ovunque per colpire vigliaccamente e indiscriminatamente.

Di questo non se ne sono resi conto i mass media, visto che continuano a mandare inviati di guerra come se fossimo ancora fermi agli eventi bellici di prima del 2001.

I corrispondenti di guerra di un tempo mettevano a rischio esclusivamente la propria vita e le responsabilità e gli oneri della loro incolumità ricadevano unicamente sulle testate giornalistiche per le quali lavoravano. Nessun esercito, neppure il più tribale armato di scuri e asce, ne bramava il corpo per farne oggetto di riscatto e di ricatto a un’intero Stato.

Questo sta invece avvenendo da alcuni anni, soprattutto contro la fragile e pusillanime Italia, incapace di tutelare seriamente coloro che rischiano di morire sul campo, per la vita di tutti.

Può un giornalista mettere a repentaglio la sicurezza di uno stato in cambio di tre colonnine di cronache di guerra immancabilmente faziose e di limitatissimo interesse pubblico, sempre e comunque?

Allo stesso modo, laddove sono impegnati i nostri militari, non dovrebbe essere permesso alle ong di essere presenti, per non favorire quel terrorismo occhiuto, attento alle ondivaghe dinamiche politiche, interne al nostro paese.

Sarebbe anzi meglio che gli interventi affidati oggi a un volontariato inerme e, qualche volta, collaborazionista del nemico, fossero in carico all’esercito, che riuscirebbe ad offrire gli stessi servizi di assistenza, forse migliori, alle popolazioni locali.

Militarizzare, ovunque fosse necessario, potrebbe essere il modo più sicuro per accellerare la fine di un conflitto come quello in atto in Afghanistan, riducendo al minimo le perdite di vite umane e del Tesoro, ancorchè quelle di credito internazionale dell’Italia.

Ma purtroppo, al contrario, con l’approvazione di questo dl, in arrivo al Senato, il governo Prodi si accinge ad aumentare le spese civili, con inutili sperperi finanziari e pericolose offerte di nuovi potenziali ostaggi.

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